Il primo comma nel nuovo art. 7 dello Statuto del Contribuente (legge n. 212/2000) dispone, a seguito delle modifiche introdotte con il decreto delegato di riforma n. 219/2023, quanto segue: “Gli atti dell’amministrazione finanziaria, autonomamente impugnabili dinanzi agli organi della giurisdizione tributaria, sono motivati, a pena di annullabilità, indicando specificamente i presupposti, i mezzi di prova e le ragioni giuridiche su cui si fonda la decisione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, che non è già stato portato a conoscenza dell’interessato lo stesso è allegato all’atto che lo richiama, salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale e la motivazione indica espressamente le ragioni per le quali i dati e gli elementi contenuti nell’atto richiamato si ritengono sussistenti e fondati”.

La norma, in primo luogo, pone a carico dell’Amministrazione finanziaria un obbligo di motivazione molto specifico – a pena di annullabilità del provvedimento – consistente nel dovere di indicare:

I) i presupposti dell’emissione del provvedimento e, in generale, della pretesa tributaria (e, quindi, i fatti al verificarsi dei quali il cittadino risulta debitore verso il Fisco – in altri termini, gli elementi costitutivi e permissivi idonei a determinare l’emissione del provvedimento);

II) i mezzi di prova a sostegno della pretesa fiscale e che hanno determinato l’Amministrazione finanziaria ad emanare il provvedimento;

III) le ragioni giuridiche su cui si fonda l’atto impositivo (quindi, l’iter logico-giuridico seguito dall’Amministrazione finanziaria che giustifica l’adozione del provvedimento anche su di un piano normativo).

La mancanza di detti elementi rende l’atto impositivo annullabile (in particolare, sarà annullabile l’atto riportante una motivazione generica). Al riguardo, fuori dai casi in cui sia la stessa Amministrazione finanziaria ad annullare l’atto a seguito di autotutela, il contribuente che intenda contestare l’atto con ricorso giurisdizionale ha l’onere di indicare tutti i vizi nel primo atto difensivo (ad esempio, in sede di ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di I grado, se si opera nell’ambito di quella giurisdizione). I cennati vizi dell’atto impositivo, infatti, non posso essere accertati d’ufficio dal Giudice in assenza di specifica eccezione da parte del contribuente (che se tardivamente proposta verrebbe dichiarata inammissibile).

Per quel che poi concerne la c.d. “motivazione per relationem“, la nuova norma tutela maggiormente il contribuente rispetto al passato, soprattutto nei casi in cui l’Amministrazione finanziaria riproduca nell’atto impositivo il contenuto essenziale di un altro atto ivi richiamato: in tale ipotesi non sarà più sufficiente il mero “copia e incolla” del contenuto essenziale dell’atto richiamato, ma sarà obbligatorio che la motivazione indichi “espressamente le ragioni per le quali i dati e gli elementi contenuti nell’atto richiamato si ritengono sussistenti e fondati”. Si tratta di un onere motivazionale non di poco conto a carico del Fisco, in quanto esso dovrà spiegare dettagliatamente perché l’atto richiamato nel provvedimento è rilevante ai fini della pretesa tributaria. Il difensore tributario (come, ad esempio, un avvocato tributarista) dovrà dunque porre molta attenzione nel redigere le difese per il proprio cliente, perché anche in tal caso il vizio va subito eccepito nel ricorso.

Certamente interessanti, sono, poi, i risvolti nei casi di accertamento di utili extracontabili delle società. In dette ipotesi, infatti, l’accertamento notificato al socio (con il quale si presume la percezione dell’utile “occulto” della società) deve accludere in allegato anche l’accertamento societario o, quanto meno, riportarne il contenuto essenziale – ma con una motivazione che contenga specifici e accurati accertamenti circa la natura di società a “ristretta base partecipativa o sociale“, a sua volta strumentale ai fini della presunzione di distribuzione del presunto maggior utile accertato.
In altri termini, l’Erario dovrà anche motivare, sempre in base agli elementi di prova acquisiti, che, a fronte del maggior reddito societario presuntivamente accertato, vi sia poi stata una distribuzione dell’utile in capo ai soci e che questi lo abbiano incassato o percepito proporzionalmente alla quota di partecipazione societaria. 

Avv. Giuseppe Marino, tributarista in Roma

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