Con la recente sentenza n. 15749/2023, la Corte di Cassazione ha accolto le ragioni di un’impresa contribuente che si era vista negare il diritto alla detrazione dell’IVA passiva su fatture considerate dell’Ufficio afferenti ad operazioni soggettivamente inesistenti.
In particolare, la Cassazione, in un’ottica garantista per il contribuente, ha precisato come fosse onere dell’Agenzia delle Entrate provare non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche che il destinatario della fattura fosse consapevole del fatto che l’operazione si inseriva in un meccanismo teso all’evasione dell’IVA, o che avrebbe dovuto essere consapevole, utilizzando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente.
Solo laddove l’Agenzia delle Entrate assolva a tale incombente istruttorio, grava poi sul contribuente la prova contraria di avere adoperato – per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta – la diligenza massima esigibile da un operatore “accorto“, sempre secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità.
In tal senso la Corte Suprema richiama le sue precedenti sentenze n. 9851/2018, n. 27566/2018 e n. 15369/2020.
Risulta, dunque, di dirimente importanza la difesa opposta dal contribuente, che sin dal primo atto difensivo deve contestare il difetto di prova dell’Ufficio.
Avv. Giuseppe Marino – avvocato tributarista, cassazionista
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